Per riuscire a parlare di qualcosa bisogna acquisire un certo distacco da essa?
Non lo so. Dicono di sì, ma io credo di no.
Quante volte avete sentito l’esigenza di ringraziare un autore (di un libro, una poesia, una canzone, un film, un quadro ecc.) per essere riuscito a dire con parole/immagini/suoni qualcosa che avevate dentro ma che non riuscivate ad esprimere? Sono stata adolescente negli anni '90, l'80% del tempo lo passavi ascoltando musica e leggendo libri - più di quanto avrei dovuto fare, in effetti, ed estremamente molto più di quanto si faccia adesso - e il restante 10% lo passavi guardando Mtv: era impossibile che non accadesse.
E poi scrivevo. Scrivevo parecchio. Di tutto, anche di ciò che non conoscevo ancora. Lo facevo con distacco, senza mai preoccuparmene, senza mai chiedermi nulla. Scrivevo come se ricordassi la scena di un vecchio film, senza mai chiedermi se fosse reale, se fosse possibile, se fosse successo a me.
Per riuscire a scrivere di qualcosa bisogna averla vissuta?
Una volta ho incontrato l'autore di un'opera che mi aveva toccato l'anima. Un'opera che parlava di una condizione che io conoscevo bene. Mi aveva scosso l'animo perché avevo pensato che quello sarebbe stato esattamente il modo in cui io avrei descritto quella condizione. E mi è successa una cosa: all'improvviso mi sono sentita così vicina a quella persona, da poter quasi percepire i suoi pensieri: una connessione che solo chi ha vissuto vicende simili sente. Quando l'ho incontrato gli ho chiesto se anche lui avesse vissuto quella situazione, domanda che mi sembrava superflua, dato che ero convinta che fosse così. E quando mi ha detto no, gli ho chiesto come facesse a conoscere quegli stati d'animo che aveva così sapientemente descritto. E lui mi scosse di nuovo nel profondo, esattamente come aveva fatto con la sua opera, dicendomi "ho chiesto". Quelle due parole mi parevano così strane, proprio io che non avevo chiesto mai, abituata a cavarmela da sola in tutto, anche in questo.
Per riuscire a scrivere di qualcosa bisogna saper ascoltare, osservare e avere la capacità di provare empatia verso qualcosa o qualcuno. Poi bisogna trovare una connessione, un punto di contatto dentro se stessi e fare di esso il veicolo d'espressione. Perché inevitabilmente l’opera parla di sé, anche quando diventa di tutti. Perché alla fine nell’arte ognuno vede quello che vuole. Come nella vita, del resto.
Per fortuna per riuscire a scrivere una ricetta basta provarla 😊
E per provare questa basta avere una caterva di carote inutilizzate in frigo, come me.
Ingredienti:
320 g di carote
300 g di farina
100 g di zucchero
80 g di farina di mandorle (o mandorle pelate)
3 uova
50 ml di olio di semi
1 bustina di lievito
1 bacca di vaniglia
Pelate le carote e frullatele in un mixer. Riducete le mandorle in farina, se non l'avete già pronta. Montate gli albumi a neve. A parte montate i tuorli con lo zucchero, aggiungetevi le carote frullate e l'olio di semi. Aggiungete i semi della bacca di vaniglia e poi la farina setacciata con i lievito. Unite anche la farina di mandorle e amalgamate il composto agli albumi, mescolando dal basso verso l'alto. Versatelo in una tortiera da 24 cm imburrata e infarinata e cuocete a 180°, per 30-40 minuti, facendo la prova stecchino. Fate raffreddare e spolverate con zucchero a velo.
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